Ferdinando Valletti

La vicenda di Ferdinando Valletti è una delle più intense e meno conosciute della storia dello sport italiano. Calciatore della Juventus negli anni ’40, operaio specializzato e uomo di grande dignità, Valletti fu travolto dagli eventi della Seconda guerra mondiale e deportato nel lager di Gusen, parte del complesso di Mauthausen.
La sua è una storia di resistenza silenziosa, di capacità di sopravvivere al disumano senza mai rinunciare alla propria umanità.

Dalla Juventus alla fabbrica

Nato a Milano nel 1921, Valletti mostrò fin da giovane un talento naturale per il calcio. Arrivò alla Juventus, dove giocò come mezzala, ma la sua carriera prese una strada diversa quando, ancora giovanissimo, decise di intraprendere un lavoro stabile come tecnico specializzato, senza però abbandonare completamente lo sport.

Il calcio, per lui, non era solo competizione: era disciplina, amicizia, una scuola di vita. Valori che avrebbe portato con sé anche nei momenti più drammatici.

L’arresto e la deportazione

Nel 1944, durante gli scioperi nelle fabbriche del Nord Italia contro il regime nazi-fascista, Valletti partecipò a manifestazioni per chiedere condizioni migliori e il rispetto dei diritti dei lavoratori. Il suo impegno gli costò l’arresto.

Venne inviato prima a Bolzano, poi deportato nel campo di concentramento di Gusen, uno dei più terribili dell’intero sistema dei lager. Lì, come migliaia di altri internati, fu costretto ai lavori forzati in condizioni disumane, tra fame, violenze e malattie.

Il calcio come atto di resistenza

In mezzo a quel mondo di brutalità, il calcio tornò nella vita di Valletti come un’ancora di salvezza. Alcuni deportati, nei brevi momenti di pausa, riuscivano a organizzare partite improvvisate con palloni fatti di stracci.
Valletti, con la sua esperienza da giocatore professionista, divenne un punto di riferimento anche lì: non per tecnica o prestigio, ma per la capacità di tenere unite le persone, di ricordare loro che, nonostante tutto, restavano esseri umani.

In molti testimoniano che il solo fatto di vederlo giocare, muoversi, suggerire passaggi e sorridere aveva un valore immenso: significava ritrovare un frammento di normalità in un luogo costruito per annientare.

La liberazione e il ritorno alla vita

Valletti sopravvisse alla detenzione, liberato nel 1945 in condizioni fisiche difficilissime. Tornato in Italia, scelse di non tornare al calcio professionistico: le ferite del lager, fisiche e morali, erano troppo profonde.

Riprese il lavoro come operaio e divenne testimone attivo, raccontando nelle scuole e nei circoli la realtà dei campi di concentramento. Lo sport, per lui, rimase un linguaggio, ma il suo ruolo divenne quello di educatore, di guardiano della memoria.

Un esempio poco celebrato ma fondamentale

La figura di Ferdinando Valletti è un simbolo di un tempo in cui il calcio e lo sport non erano distanti dalla realtà sociale e politica. La sua storia incarna l’idea dello sportivo come cittadino consapevole, capace di assumersi responsabilità anche quando questo comporta rischi enormi.

Valletti non fu un eroe nel senso classico: fu un uomo normale che, messo davanti all’ingiustizia, scelse di non voltarsi dall’altra parte. E proprio per questo la sua testimonianza è essenziale.

Una memoria da custodire

Oggi il nome di Ferdinando Valletti è ricordato in diverse iniziative sulla memoria della deportazione, ma meriterebbe uno spazio ancora più centrale nella storia sportiva italiana. Il suo percorso ci ricorda che lo sport può essere anche un atto di identità, di resistenza, di affermazione della propria dignità.

La sua vita, passata dai campi da calcio ai campi di sterminio, ci parla ancora con una forza sorprendente: insegna che anche nei momenti più oscuri è possibile restare fedeli ai propri valori e aiutare gli altri a fare lo stesso.

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